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Note sul discorso di Nigel Farage

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Nelle scorse settimane un nuovo astro ha brillato nel firmamento del web: Nigel Farage, il cui discusso intervento al Parlamento Europeo è stato fatto rimbalzare innumerevoli volte da un capo all’altro della rete.
Prima di riproporre il testo integrale del discorso di Farage, e di aggiungervi qualche considerazione a margine (ma forse non marginale), vediamo un po’ chi è questo personaggio.
 
Un leghista per la Regina

La sua biografia è disponibile sulla solita Wikipedia, quindi non mette conto riassumerla qui. Più interessante, invece, è sapere che Farage è copresidente del Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia (in inglese The Europe of Freedom and Democracy Group, EFD; in francese Groupe Europe Libertés Démocratie, ELD — i francesi, sempre desiderosi di distinguersi, hanno le libertà al plurale). Il gruppo è di recente costituzione, essendo nato il 1° luglio 2009, ed è formato da diversi partiti politici provenienti da otto Stati membri: Gran Bretagna, Italia, Grecia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e Slovacchia. Il suo programma politico è in generale di opposizione al centralismo burocratico dell’Unione Europea, e si articola in quattro punti fondamentali: 1) libertà e cooperazione fra i popoli dei diversi Stati; 2) maggiore democrazia e rispetto per la volontà popolare; 3) rispetto per la storia, le tradizioni e i valori culturali dell’Europa; 4) rispetto per le differenze e gli interessi nazionali. (Per correttezza, rendo noto di aver ripreso il programma dal sito ufficiale del Gruppo, che è in inglese: non sembra esistano versioni nelle diverse lingue nazionali degli altri membri, o almeno io non sono riuscita a trovarle — ciò che, mi pare, renderebbe legittimo il sorgere di qualche dubbio sull’effettivo senso dei punti 3 e 4 del programma citato).
Tornando a Farage, si è visto che è copresidente del Gruppo; questo implica che ci sia almeno un’altra persona a capo dello stesso. E infatti un’altra persona c’è: è l’italiano Francesco Speroni, membro della Lega Nord. Vale la pena di ricordare che la Gran Bretagna è quella nazione da sempre impegnata a contrastare l’unità del blocco europeo occidentale; e la Lega Nord è quel partito da sempre impegnato a contrastare l’unità italiana — l’art. 1 (“Finalità”) del suo Statuto recita testualmente: «Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” […] ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana»). Insomma Dio li fa e poi li accoppia.

Così parlò Farage

Come annunciato, ecco il testo integrale del discorso tenuto da Nigel Farage al Parlamento europeo, il 16 novembre 2011:
«Eccoci qui, sull’orlo del disastro economico e sociale, e in questa stanza oggi abbiamo quattro uomini che dovrebbero essere responsabili. Eppure abbiamo ascoltato i discorsi più insipidi e tecnocratici di sempre: state tutti negando. L’euro è un fallimento sotto tutti i punti di vista. Di chi è la colpa? Chi è che ha in mano il vostro destino? Ovviamente la risposta è: nessuno di voi. Perché nessuno di voi è stato eletto. Nessuno di voi ha avuto la legittimazione democratica necessaria per arrivare ai ruoli che state attualmente ricoprendo. E in questo vuoto è arrivata Angela Merkel. Viviamo in un’Europa dominata dalla Germania, qualcosa che il progetto di Europa unita avrebbe dovuto effettivamente impedire. Qualcosa che chi venne prima di noi ha impedito, pagando con il suo sangue. Io non voglio vivere in un’Europa dominata dalla Germania e neanche i cittadini europei lo vogliono. Ma ragazzi, siete voi che lo avete permesso. Perché quando Papandreu decise di chiedere un referendum, lei, signor Rehn, parlò di “violazione della fiducia”, e i suoi amici si sono riuniti qui come un branco di iene, hanno circondato Papandreu, lo hanno cacciato via e rimpiazzato con un governo fantoccio. Che spettacolo disgustoso. E non ancora soddisfatti, avete deciso che Berlusconi se ne doveva andare. Quindi fu cacciato e rimpiazzato con il signor Monti, ex commissario europeo, anch’esso architetto di questo euro-disastro. Un uomo che non era neanche membro del Parlamento. Sta diventando come un romanzo di Agatha Christie, dove cerchiamo di indovinare chi sarà il prossimo ad essere fatto fuori. La differenza è che sappiamo benissimo chi sono gli assassini: dovreste essere ritenuti responsabili per ciò che avete fatto. Dovreste essere tutti licenziati. E devo dire, signor Van Rompuy, che 18 mesi fa, quando la incontrai per la prima volta, mi sbagliai sul suo conto. Dissi che avrebbe ucciso silenziosamente la democrazia degli stati-nazione, ma non è più così, lo sta facendo molto rumorosamente. Lei, un uomo non eletto, è andato in Italia a dire: “non è il momento di votare, è il momento di agire”. Cosa, in nome di Dio, le dà il diritto di dire al popolo italiano cosa fare?».

Parole-chiave

Curiosamente, tutti sono rimasti così abbacinati dalla totalità del discorso di Farage da non prestare la minima attenzione a poche frasi tutt’altro che di secondaria importanza. E queste frasi sono precisamente: «Viviamo in un’Europa dominata dalla Germania, qualcosa che il progetto di Europa unita avrebbe dovuto effettivamente impedire. Qualcosa che chi venne prima di noi ha impedito, pagando con il suo sangue. Io non voglio vivere in un’Europa dominata dalla Germania».
Pur senza voler entrare nel merito delle posizioni del duo Merkel-Sarkozy, tuttavia è impossibile non ricordare che Francia e Germania sono acerrime rivali da molto prima di costituirsi in Stati-nazione: è praticamente la prima cosa che apprendiamo da Giulio Cesare, il quale all’inizio del suo De bello Gallico (libro I, cap. I) ci informa che dei tre popoli che abitano la Gallia «i più valorosi sono i Belgi, perché sono i più lontani dalla raffinatezza e dalla civiltà della provincia, cosicché molto raramente i mercanti si recano da loro a portarvi quei prodotti che servono ad effeminare gli animi, e sono al contempo i più vicini ai Germani che abitano oltre Reno, con i quali sono ininterrottamente in guerra. Questa è la ragione per cui anche gli Elvezi superano nel valore gli altri Galli, perché quasi ogni giorno combattono contro i Germani, o tenendoli fuori dal proprio territorio o portando essi la guerra nel territorio di quelli». Materia del contendere, allora come adesso — e stiamo parlando di duemila anni fa —, la supremazia sul continente europeo: i sorrisi e lo scambio di cortesie fanno parte dell’etichetta diplomatica e non bisognerebbe farsene trarre in inganno.
Infatti fu proprio la volontà di superare questo antagonismo che diede la spinta decisiva alla costituzione della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, proclamata il 18 maggio 1951 col Trattato di Parigi. A dichiararlo senza mezzi termini era stato, un anno prima, Robert Schuman, ministro degli esteri francese dal 1948 al 1952 e promotore del processo di integrazione europea. Nel suo discorso del 9 maggio 1950, Schuman si espresse come segue: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. […] L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. A tal fine, il governo francese propone di […] mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime. La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica. […] Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni. Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».

Se la Germania diventa über alles

Il fatto è che un’effettiva unità dell’Europa a guida tedesca ha sempre rappresentato, e ancora rappresenterebbe, una seria preoccupazione per l’unipolarismo di matrice anglosassone: lo spiega assai bene Charles A. Kupchan, uno dei massimi esperti americani di relazioni transatlantiche e di studi europei. Docente di relazioni internazionali presso la Georgetown University di Washington, direttore degli affari europei all’interno del National Security Council-NSA durante la prima amministrazione Clinton e attualmente Senior Fellow di studi europei presso il Council on Foreign Relations-CFR, Kupchan è fra l’altro autore di un interessante saggio — The End of the American Era: U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the twenty-first Century (2002), pubblicato in italiano nel 2003 col titolo La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventunesimo secolo. Per la cronaca, l’editore italiano è Vita&Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; e il volume è curato dall’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali-ASERI, nata «nel 1995 dalla collaborazione tra l’Università Cattolica e la Camera di Commercio di Milano quale centro di formazione e ricerca sui fattori e le dinamiche economico-politiche della globalizzazione. Direttore dell’ASERI è Lorenzo Ornaghi»: Ornaghi, magnifico rettore dell’Università Cattolica di Milano e attuale ministro per i Beni e le attività culturali nel governo Monti.
Scrive dunque Kupchan: «L’unificazione della Germania nel 1871 riunì comunità che per secoli erano state feudi, principati e ducati indipendenti. […] La creazione di una Germania unita, anche senza l’Austria, non poteva non alterare la mappa geopolitica d’Europa. […] La vittoria nella Guerra franco-prussiana, la popolazione e le risorse poi disponibili per il nuovo Stato confermarono che la Germania aveva eclissato tutti gli sfidanti, inclusa la Francia, come nazione dominante sul continente. […] L’unificazione tedesca sferrò alla Francia il colpo più immediato — la sconfitta e l’umiliazione per mano della Prussia — ma anche per la Gran Bretagna le conseguenze furono sinistre. Una Germania unificata e la sua conseguente ascesa significarono la fine dell’egemonia britannica e avrebbero in ultima istanza reso obsoleta la sua grande strategia consistente nel perseguire il dominio navale globale evitando contemporaneamente impegni militari rilevanti sul continente europeo. La Gran Bretagna non dominò mai l’Europa come fece Roma. Ma non farlo fu il colpo di genio della sua grande strategia. La Gran Bretagna intervenne sul continente solo quando necessario per mantenere un equilibrio stabile. Con potenziali rivali che si tenevano reciprocamente in scacco, la Gran Bretagna fu libera di concentrarsi sullo sviluppo e la difesa del proprio impero d’oltremare. Non così dopo l’unificazione tedesca. Venne ufficialmente proclamato un Reich tedesco federato il 18 gennaio 1871 […]. I leader inglesi ne compresero subito le implicazioni. Dopo solo tre settimane, Benjamin Disraeli, il leader conservatore che di lì a poco diventò Primo ministro, disse alla Camera dei Comuni che l’unificazione della Germania “rappresenta la Rivoluzione tedesca, un evento politico più importante della Rivoluzione francese del secolo scorso. […] cosa è successo realmente in Europa? L’equilibrio di potenza è stato completamente distrutto” [B. Disraeli, 9 febbraio 1871, cit. in J.C.G. Rohl, From Bismarck to Hitler: The Problem of Continuity in German History, Barnes & Noble, New York 1970, p. 23]. L’unione del popolo tedesco in un solo Stato, temeva Disraeli, avrebbe stravolto irreversibilmente l’equilibrio europeo, erodendo per sempre il fondamento della grande strategia britannica, e preparando il campo per la fine del suo dominio globale» (op. cit., pp. 149-150). Settant’anni dopo, in pieno XX secolo, «se non fosse stato per l’eccessiva ambizione di Hitler — la sua decisione di aprire un secondo fronte contro la Russia nel 1941 logorò le risorse tedesche — e la volontà americana di mettere fine una volta per tutte alla macchina da guerra nazista, la Germania avrebbe potuto guadagnare un controllo duraturo sull’Europa centro-orientale. […] Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Alleati […] occuparono la Germania e divisero il Paese in unità amministrative, assicurandosi che la sua forza unificata non potesse più precipitare l’Europa in guerra. Quando iniziò la guerra fredda, la Germania fu formalmente separata in due Paesi: la metà occidentale entrò nella NATO e quella orientale nel Patto di Varsavia. Gli Alleati permisero ben presto alla Germania occidentale di riarmarsi e ricostruire la sua economia per contribuire a opporsi alla minaccia sovietica. Ma il ritorno della potenza tedesca fu tollerato solo all’interno del contesto vincolante della NATO e della Comunità Europea. In nessun caso l’America e i suoi Alleati avrebbero permesso alla Germania di seguire la sua strada» (op. cit., pp. 152-153).

Dio deve ancora stramaledire gli inglesi?

La citazione di Kupchan, lunga e in neo-lingua, ha il merito di essere sufficientemente chiara ed esaustiva. Come chiaro ed esaustivo, a leggerlo fra le righe, è il senso dell’intervento di Nigel Farage, che ha fatto innamorare tanti italiani a destra e a sinistra — non è un modo di dire, bensì un riferimento ideologico preciso e un po’ inquietante: l’esterofilia italica è una piaga trasversale.
Ma Farage, e credo che non lo si dovrebbe dimenticare, è un inglese purosangue (benché inviso a tanti suoi compatrioti): antieuropeista fino al midollo, si capisce che non ha perso l’atavico vizio di dividere et imperare, affinché Britannia rules. Ah, il fardello dell’uomo bianco…

 

* Alessandra Colla, giornalista, è frequente contributrice a “Eurasia”

 

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